1° appuntamento con l’angolo ZEN

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1° appuntamento con l'angolo ZEN

Kitagawa Utamaro, Beauty and Tea Cup, Originally in Edo era. This re-carved edition was made probably in the early 20th century.

Inizia la RUBRICA delle 101 STORIE ZEN a confronto con il pensiero psicoanalitico
Oggi vi propongo la celeberrima Tazza di tè con una mia riflessione.

UNA TAZZA DI TÈ

Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.
Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.
Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. «E’ ricolma. Non ce n’entra più!».
«Come questa tazza,» disse Nan-in «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?».

***

Questa è una delle storie zen che più spesso mi è capitato di raccontare in seduta.
Il paziente che arriva al suo primo colloquio ed anche ai successivi, in genere porge di sé e della sua vicenda umana un racconto filtrato dalle sue opinioni e congetture, di cui è interamente imbevuto.
Per la maggior parte delle persone è difficile abbandonare le proprie credenze, i retaggi, le idee costruite circa la loro identità e magari distorte nel tempo dentro a relazioni non sempre sane

Ma chi è la tazza e chi la teiera che versa il tè ? E cosa il tè…?
Penso che il trattamento psicoanalitico si distingua dagli approcci di cura presenti sul mercato perché non tenta di suggerire o indicare dall’esterno strategie o comportamenti più efficaci per il soggetto.
Non tenta di rovesciare nel cliente il proprio “sapere”.
Non ha la presunzione di fare tabula rasa e ‘inoculare’ frettolosamente una serie di precetti e modalità per trasformare forzosamente un individuo.
Né il terapeuta si eleva ad esperto e guru o, come ormai è in voga , a coach.

La tazza vuota è la mente del terapeuta psicoanalitico e il tè sono i racconti più o meno dolorosi, del paziente-teiera, i suoi pensieri-impensabili in cerca di un pensatore ( il terapeuta dalla mente-tazza vuota) che li contenga inizialmente perché la “teiera” non è più o non è ancora in grado di gestirli, o meglio, di ‘contenerli’.
Prima di chiedere ai pazienti di fare posto dentro di sé per i “buoni consigli” è auspicabile, anzi, necessario, essere terapeuta concavo per accogliere nella propria cavità il mondo delle persone che in lui depongono con coraggio – spesso dopo non poche delusioni, ferite ed abbandoni – la propria storia con in cuore una sottile ma lucente speranza che non tutto, forse, è perduto.

Ecco che il tè-racconto stilla, goccia a goccia, oppure in un gesto impetuoso rotola fuori dalla teiera (tetzubin) fino a rovesciarsi del tutto, come dicevamo, nella mente-tazza del terapeuta.

Per rispecchiamento, in modo progressivo, anche nel paziente accolto con tale apertura e disponibilità inizierà a ricrearsi, come un circolo virtuoso, la stessa modalità vissuta in seduta.
Se inizialmente non era in grado di liberarsi di schemi mentali e di comportamentI auto-etero-lesivi, né di ‘assimilare’ pensieri ‘indigesti’, in seguito, le esperienze di ascolto, di silenzio non giudicante, di partecipazione e contenimento sperimentati nel contatto terapeutico, favoriscono il rinsaldarsi o lo sviluppo ex-novo di un analogo apparato di pensiero, alla stregua di un apparato digerente, solo che di contenuti mentali anziché di alimenti.

Questa visione dei pensieri assimilabili come cibi (Wilfred Bion) o liquidi (storia zen) affonda le sue radici nel presupposto secondo cui, per elaborare i prodotti mentali, anche l’apparato mentale preposto a tale compito funzioni in modo analogo ad un sistema digerente sufficientemente maturo.
D’altro canto si deve partire da un vuoto, come conditio-sine-qua-non, per accogliere tali cibi-liquidi/pensieri di un altro essere ed avviare l’elaborazione-digestione di quei contenuti rimasti in lui bloccati o irrisolti, cioè indugesti, fino a promuiverne il progresso, la guarigione ed il benessere .
Avanzamento ed metabolizzazione interrottisi nel passato (più o meno recente) o addurittura mai avvenuti per lacune relazionali dovute alle figure di accudimento iniziali.

Dunque il trattamento analitico si dispiega proprio a partire da una presenza recettiva e silenziosa, quasi materna, da uno spazio cavo come lo sarebbe il ventre femminile prima di ospitare un bambino per tutto l’arco di gestazione. Solo in questo modo il processo metabolico-digestivo dei pensieri impensabili può prendere le sue mosse, ovvero, da un terapeuta disposto a fungere da    io – ausiliario del paziente, nell’attesa che transiti in lui per innata imitazione ( neuroni a specchio, si veda Daniel Stern) questa funzione di assimilazione/ assorbimento delle idee.
Quando il paziente sperimenta la pensabilità di ciò che per lui era impensabile, il processo terapeutico può dirsi volto al termine ed il soggetto pronto ad essere tazza-vuota a sua volta.

PAROLE CHIAVE : ASCOLTO, ACCOGLIENZA, SPAZIO, TERAPEUTA, METABOLISMO, DIGESTIONE, PENSIERI IMPENSABILI-INDIGESTI, ASSIMILAZIONE, BLOCCO, IRRISOLTO, PENSABILITÀ, WILFRED BION, DANIEL STERN, NEURONI A SPECCHIO – RISPECCHIAMENTO, GUARIGIONE, MENTE VUOTA

L’Angolo Zen,

 

 

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Senso d’orientamento

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Senso d'orientamento

In tempi antichi i punti cardinali avevano un’aura mistica, legata ai cicli del sole; senza tornare a quel misticismo, aver presente quali siano i propri punti cardinali interiori, i propri sistemi di riferimento legati ai propri valori, bisogni e desideri, assicura un buon orientamento, cioè una buona coscienza su chi si è e su dove si vuole andare.

immagine tratta da Ritratti di Sigmund Freud – di Tullio Pericoli

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2° appuntamento con l’angolo dello ZEN

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2° appuntamento con l'angolo dello ZEN

Continua la RUBRICA delle 101 STORIE ZEN a confronto con il pensiero psicoanalitico
Oggi vi propongo il breve racconto di SE AMI, AMA APERTAMENTE con una mia riflessione.

SE AMI, AMA APERTAMENTE

Venti monaci e una monaca, che si chiamava Eshun, facevano esercizio di meditazione con un certo maestro di Zen.
Nonostante la sua testa rapata e il suo abito dimesso, Eshun era molto carina. Diversi monaci si innamorarono segretamente di lei. Uno di questi le scrisse una lettera d’amore, insistendo per vederla da sola.
Eshun non rispose. Il giorno dopo il maestro fece lezione ai suoi discepoli, e alla fine della conferenza Eshun si alzò. Rivolgendosi a quello che le aveva scritto, disse: “Se veramente mi ami tanto, vieni qui e prendimi subito tra le tue braccia”

*****

Questa storia zen declina la manifestazione affettiva quale paradigma di una vita che possa definirsi umana.
Sprona a dare corso alle parole, ad “agire l’amore”, a non inibire lo slancio, il sentimento, l’entusiasmo.
Ci sfida ad essere e a sentire.
Non solo a concepire, ma anche a realizzare, ovvero a portare sul piano di realtà – con un moto che va da un dentro ad un fuori – nel “qui ed ora“, a dar forma e corpo a ciò esiste nel cuore e nel cervello, senza remore, a farne essenza concreta dell’esser-ci.
Dice anche che, se è vero che amiamo, non è possibile non essere-una-cosa-sola-con ciò o con chi diciamo di amare, e nascondere tale verità. E questo “essere una cosa sola con” è espressione di un sentire-zen.
Se guardo una foglia e vedo me e la foglia, sono in un pensiero duale.
Ma supero questa dicotomia se io ‘sono’ la foglia, se io ‘sento’ la foglia come parte di me stessa.
In modo analogo, amare una persona e non essere-una-cosa-sola-con essa è un inconciliabile, lacerante dualismo, laddove si ami nella genuina accezione del termine.
Questo sentire in effetti comporta un meccanismo di introiezione ( cioè un portar dentro di sé ) della figura amata, ossia una dinamica secondo cui “l’amante” la percepisca come parte integrante di se stesso.
Quello che accade è che il soggetto e l’oggetto del sentimento ( come nel caso della foglia ) sono indissolubilmente intrecciati in un’unica trama.
Essere una cosa sola, un uno, un intero, non implica necessariamente un ‘abbraccio’ sul piano di realtà, ma una comunione e condivisione dell’amore che ci alberga, un disvelamento, un’espansione che ‘abbracci’ tutto ciò che esiste intorno a noi.

In una mia lettura interpretativa, forse azzardata, ma pur sempre personale ( non me ne vogliano i puristi del tao e dintorni ), il noto cerchio zen pare non sia altro che un circolo virtuoso, il circolo dell’amore, che, non a caso , non è un cerchio perfetto come quello di Giotto, bensì socchiuso appena, ricordando con facilità un abbraccio, semiaperto perché l’amore, pur essendo a detta di certi “claustrofilico”, sempre dovrebbe lasciare spazio, ossigeno, fiducia e libertà.

In questo senso amare in modo reale non è un possedere chi si ama, bensì farsi strumento del sentimento, lasciarsi inondare da esso ed appartenere all’amore per poterlo avvertire in ogni fibra, in ogni molecola, così da esserne mossi nel mondo, verso il mondo, verso tutto.

Questa breve narrazione giunge come un invito all’ecologia dei sentimenti : a non sprecare in segreto un amore o una passione, che semanticamente deriva dal latino “studium”, e dunque una vera esortazione a non rinunciare alle proprie aspirazioni, bensì adoperarsi per una loro conversione pratica nel proprio quotidiano vivere.

Sigmund Freud affermava che : ” L’uomo energico, l’uomo di successo, è colui che riesce, a forza di lavoro, a trasformare in realtà le sue fantasie di desiderio. “

Non portare alla luce amore (o passione) fa in modo che si vada estinguendo il principio vitale che in noi alberga.
Occorre far transitare cioè il mondo ideologico attraverso la realtà fenomenologica.
Trasformare l’amore in concreto abbraccio, o un talento, una passione in un’arte, o altro ancora, applicandosi con assiduità e costanza equivale a dare senso alla propria esistenza.

Una modalità sana di ” lasciare scorrere ” , di avere fiducia in sé e nel prossimo, comunque vadano le cose ovvero, di nutrire il coraggio di sentire, di offrire-donare, che è la via più immediata per una felicità autentica.
Lasciarsi possedere dall’unione amorevole con il tutto.
Questo potrebbe essere il senso ultimo della storia zen.

PAROLE CHIAVE: MANIFESTAZIONE AFFETTIVA, SENTIMENTO, ENTUSIASMO, DUALISMO, UNITÀ, INTROIEZIONE, ESPANSIONE, ABBRACCIO, UNO, TUTTO, TAO, ZEN, SPAZIO, FIDUCIA, LIBERTÀ, AMORE, PASSIONE, ASPIRAZIONE, SIGMUND FREUD, FANTASIA, REALTÀ, QUI ED ORA, FELICITÀ

Kitagawa Utamaro, “reading Beauty”, Edo period

Kitagawa Utamaro, “reading Beauty”, Edo period
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3° appuntamento con l’angolo ZEN

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3° appuntamento con l'angolo ZEN

Torna la RUBRICA delle STORIE ZEN a confronto con il pensiero psicoanalitico.
Ecco la proposta di oggi :

LIBERAZIONE

Un giovane, si presentò davanti al maestro, e dichiarò «Vengo da te perché cerco la liberazione».
«Chi ti ha incatenato?», gli domandò il maestro.
«Nessuno» rispose il giovane.
«Allora sei già libero», sentenziò il maestro.

•••••••••

Questa brevissima storia zen scuote il lettore con la sua incisività.
Forse perché mostra quanto un’ ideazione, una falsa credenza, oppure, un certo modo di vivere le proprie emozioni, possa condizionare con tanta pervasività un individuo, fino al punto di fargli sentire il bisogno di essere liberato da una vera e propria prigionia….
Ma cosa porta una persona ad avvertire la sensazione di portare catene invisibili ?

Gancio rurale dove si legavano i muli in passato

Per sciogliere tale quesito e perseguire l’obiettivo di ottenere il superamento di questa condizione, mi avvarrò a mia volta di una storia, questa volta clinica, ma non per questo meno centrata sul ‘qui ed ora’.
Accade cioè che il passato diventi talvolta un ‘qui ed ora’ problematico, finendo col ‘mettere in catene’ il presente, malgrado esistano strade per lasciarselo alle spalle.

Infatti, anche se si nasce liberi, occorre tenere presente che nel corso di una vita, più o meno precocemente, non è così isolato il fatto che traumi di varia natura possano segnare in modo indelebile una persona, lasciando strascichi non facili da gestire quanto più è acerba la funzione mentale della stessa persona se toccata in primis o come testimone diretto di eventi di particolare gravità.

Posto che il trattamento elettivo è psicoanalitico, nel caso di cui intendo parlarvi, come sempre più spesso mi trovo ad agire, lo integro con l’EMDR, terapia che abbiamo importato dagli Stati Uniti da circa un decennio, ma che ha mosso i suoi primi passi negli anni ottanta, e che si occupa di sciogliere gli effetti post traumatici di eventi altamente stressanti, non solo in emergenza, ma anche a distanza di moltissimi anni.
Questa modalità terapeutica fa avanzare il trattamento desensibilizzando progressivamente ricordi traumatici, riuscendo così a disattivare conseguenze non funzionali nel quotidiano di un individuo qualora ne abbiano intaccato la serenità, la salute e i progetti di vita.

Il presupposto di cura alla base del lavoro consiste nel creare la possibilità di lasciare il passato nel passato: solo così il soggetto è libero da miti familiari scomodi, traumi transgenerazionali (ovvero di matrice relazionale e risalenti ai genitori dei propri genitori, ma anche legati all’accudimento iniziale e successivo, laddove ci siano stati segni di trascuratezza, spesso più psicologica che fisica, per cui meno facili da individuare), senza ovviamente dimenticare i cosiddetti traumi con la ‘T maiuscola’ (tutti i tipi di abusi, maltrattamenti….) non necessariamente occorsi nel nucleo domestico o in tenera età, ma anche successivamente.**

E quindi, con la previa autorizzazione di un mio paziente, che chiameremo per riservatezza Bartolomeo e semplificheremo con B., vi parlerò di un interessante ed illuminante frammento della sua vicenda attuale in chiave psicologica nonché terapeutica.

Questo non tanto per controvertere la storia zen, bensì per ribadirla nella misura in cui sentirsi liberi non è una conditio-sine-qua-non, ma, piuttosto, una meta verso cui orientarsi.
Essere imprigionati in schemi mentali creatisi per effetto di un trauma passato si lega non a una mancanza di volontà, ma assai di più agli effetti chimici di un evento scioccante sul proprio sistema nervoso, che in certe determinate condizioni di impotenza e pericolo subisce una sorta di ‘freezing’, con secrezioni ormonali che fissano indelebilmente nella memoria i fatti, lasciandone una percezione estremamente disturbante anche moltissimo tempo dopo. Ovvero, la rete neuronale non ha potuto, più che saputo, superare l’evento-shoc in autonomia, come è progettato per fare abitualmente per fatti stressanti di media gravità.
E’ dunque il caso di mettere in discussione la teoria secondo cui il tempo guarisce tutte le ferite: in modo ecologico può accadere, ma non per tutti i fatti spiacevoli e, a parità di evento, non per tutte le persone.
Se le reti neuronali non riescono a fronteggiare l’evento stressogeno è perché il cervello ha dovuto rilasciare determinate sostanze nella circostanza critica. Proprio queste sostanze sono però quelle che in seguito ne impediscono la rielaborazione, svolgendo una funzione fissativa sui circuiti del ricordo e perciò inibendo il percorso naturale, quello che ribadisco essere ecologico, altrimenti seguìto per un ricordo qualsiasi dalla mente dell’individuo.

Siamo una specie che apprende per prove ed errori, pertanto essere concepiti per non ricommetterli significa che il nostro sistema di elaborazione può fare una certa fatica a smaltire insuccessi o situazioni di pericolo o forte dispiacere, al preciso scopo di non ripetere l’esperienza negativa. È una forma, diciamo così, di sopravvivenza cui non possiamo opporre rimedio, se non agevolandola e assecondandola nell’ accelerare i processi di metabolismo di quegli stessi fatti più difficili da digerire (si veda a tal proposito il primo appuntamento con la storia zen – ‘La tazza’ ).

Ma veniamo a noi.
B. deve superare il recente licenziamento, soffre di ipertensione e teme gli scoppi di collera , non solo per ragioni di salute ma anche relazionali.
Infatti, attraverso il trattamento, è emerso che teme di non sapere gestire nella giusta misura le proprie reazioni, e, per evitare di danneggiare il prossimo perdendo il controllo, tende a subire ogni genere di ingiustizie, salvo poi pentirsi in un secondo tempo di non aver obiettato nulla, sovvenendogli miriadi di ragionamenti e riflessioni, tra l’altro spesso incontrovertibili.

Sottoponedolo a pochi set di stimolazioni oculari e feedback verbali sul momento scatenante il disagio, ovvero il giorno di convocazione per interrompere il contratto, il nostro lavoro lo conduce a un lontanissimo ricordo di quando era bambino, dove subisce mortificazioni pubbliche e poi private da parte della madre per aver reagito ai giardini in un conflitto causato da un altro bambino, appena più piccolo di lui e che lo aveva provocato distruggendo un complesso di torri di sabbia costruite per un castello, attività da lui molto amata.
Il ricordo sfocia nell’ingiustizia patita non tanto dal bambino quanto dalla madre (che lo colpisce con la paletta ‘per insegnarli a non usare la paletta per colpire i bambini’) e nell’immagine dal balcone del bimbo impunito, che indisturbato e trionfante continua i suoi giochi nel giardino sottostante, mentre lui resta – dopo essere stato picchiato – a casa in castigo.
Ricostruendo ulteriormente la traccia mnestica emerge il senso di inutilità, di rassegnazione, di profonda incomprensione affettiva, aggravata dalla maglietta insanguinata per un feroce morso inflittogli sul petto dall’altro bambino che non aveva in alcun modo impietosito la reazione materna nei suoi confronti, ma acuito un senso di vulnerabilità per la mancata protezione / difesa della donna verso di lui , allora bambino.
L’interdizione a reagire in modo eccessivo si traduce nei successivi 45 anni in un non-reagire quasi mai, di fatto, nella paura di non sapersi modulare…di esagerare.
Alle scuole medie, al liceo e durante il servizio militare si conferma in lui la teoria che se reagisce fa danni (un morso a un amico che lo esasperava a 13-14 anni e che s’infetterà , un pugno al liceo che tramortisce un altro scocciatore e collutazioni al servizio di leva, dove ottiene rispetto spaventando con la forza un altro molestatore ma poi sentendosi avvilito dai sensi di colpa) e dunque torna a vivere silenziando i suoi moti d’animo, di ribellione e di protesta fino a un aggravamento di salute di natura ipertensiva.
Con l’EMDR individuiamo prima il suo timore della propria aggressività: la percepirà come una grossa sfera metallica disseminata da punte pericolose ‘come denti aguzzi’ .
Con i set di stimolazione oculare verranno ‘smussate le punte’ e trasformata la boccia in un boccino, fino a essere una bilia d’acciaio, ma per lo meno maneggiabile, gestibile.
Poi, tornando all’immagine del licenziamento, ritroviamo un blocco: la paura di essere mortificato come in passato e che lui percepisce con un intenso senso di nausea.
Nella visualizzazione in cui lo guido avverte il blocco come una palla vischiosa di un grigio molto scuro, che mi riferisce essere qualcosa che gli dà un senso di nausea, come se avesse fatto indigestione.
Procedo a trattare B. con set di EMDR e brevi feedback verbali.
La palla si riassorbe di set in set, fino a divenire piccola, inoffensiva.
B. mi parla inoltre del forte e recente rifiuto interno da lui avvertito ogni volta che deve intraprendere una ricerca di lavoro quando questa coinvolge il dover entrare in relazione dialogica con qualcuno che potrebbe offrirglielo.
Dunque persino cercare lavoro gli era divenuta un’attività insostenibile giacché in agguato, quel blocco, il timore di essere mortificato e l’idea che non ne valesse la pena, viste le tante ingiustizie o preferenze per gente meno preparata, meno meritevole di lui (il bambino impunito che ha la meglio e si gode il gioco)…
Lavorando con l’EMDR nuovamente, avendo risvegliato in lui la resilienza, ci concentriamo quindi sulle sue risorse, sul riconoscimento del suo valore, fortificando con set oculari questi aspetti positivi.
In pochi incontri B. può tornare a pensare senza remore ulteriori alla ricerca di un nuovo lavoro, scompaiono i sintomi angosciosi, la nausea e il rifiuto a mettersi in gioco.
Abbiamo lasciato un pezzetto del suo passato nel passato.
Ora B. può tornare nel suo ‘qui ed ora’.
Ora B. avverte un senso di leggerezza, di fiducia, di energia ritrovata (dovrà sgranchirsi le gambe e passeggiare sul terrazzo dello studio…) e si sente liberato.

Questo racconto zen certamente è un invito a liberarci da ogni condizionamento.
La mia risposta sul tema, ancora in corso d’opera, forse non sarà esaustiva ma volta a mostrare di quali percorsi avvalersi per incamminarci verso certa libertà.

* Sitografia : http://www.lameditazionecomevia.it/
** Qui ci si addentra, per esempio, nel fatto che se infanzia e adolescenza vanno tutelate senza esclusione di colpi, certamente esistono fasce d’età in cui il sistema nervoso autonomo è più vulnerabile.
Ad esempio: tra i 4 e i 5 anni, le femminucce all’abuso fisico-sessuale, i maschietti a quello psicologico-verbale.
E ancora, soprattutto in fase di ‘pruning’ (11-14 anni), sia maschi sia femmine sono più fragili a eventi stressanti…

PAROLE CHIAVE : passato e presente, qui ed ora, funzione mentale, trauma, EMDR, ecologia della mente, memoria, pericolo, abuso, maltrattamento, sopravvivenza, infanzia, adolescenza, pruning, cervello, ormoni, freezing, trauma transgenerazionale, shoc, evento stressante, sintomi angosciosi, nausea, mortificazione, impotenza, blocco, aggressività, ingiustizia,resilienza, risorse, energia, senso di liberazione, fiducia, leggerezza.

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